Vaso di Pandora

Ancora sull’Arte di legare

Sono una persona, prima di ogni altra cosa sono una persona. Sono anche una paziente psichiatrica e una donna che ama leggere, scrivere e la scrittura.
Non sono mai stata contenzionata.
Ho iniziato a scrivere queste mie riflessioni prima di aver letto il libro di Milone, basandomi su quanto ci raccontava un’amica che lo stava leggendo e sulla mia personale esperienza in fatto di ricoveri in psichiatria, in merito ai quali ne ho da vendere.
Poi ho smesso di scrivere e ho ricominciato, dopo aver letto il libro.
Mi ha colpito l’amore di Milone per Genova. Genova è così: aspra, ma se ti entra dentro non ti lascia più andare, racconta i tuoi pensieri, li raccoglie e tu li vedi pensati tra vicoli e palazzi, tra le strettoie e il mare.
Un amore incondizionato, totale che ti accompagna, ti cinge e, a volte, ti consola.
Bel racconto quello relativo a Genova, belle le frasi spezzate a sottintendere poesia, prosa poetica mi pare si dica. Tra Genova e Genova c’è la psichiatria. Tanti anni di lavoro concentrati in pagine di ricordi, di spezzoni di un film, di flash piuttosto che in un racconto. Un lavoro difficile, quello dello psichiatra (ma non l’unico lavoro difficile) che alcuni psichiatri fanno bene, altri meno bene, altri ancora male. Da paziente posso dirlo con competenza e sincerità. Non sono mai stata ricoverata al Galliera quindi non ho conosciuto Milone come psichiatra, ma sono stata ricoverata decine e decine di volte a Sampierdarena dove ho avuto a che fare con medici eccellenti e con altri mediocri. Ti prende in cura quello che ti riceve al ricovero e, se ti va male, non c’è niente da fare: uscirai stando male se non peggio. Questo è un grosso problema: che sia il caso a decidere.
Il reparto per me è stato una tana, un rifugio. Sono d’accordo con Milone. Stavo così male che in psichiatria stavo bene. Mi ricoveravo spontaneamente e questo è un dato che fa la differenza. Ero ad alto rischio e quei ripetuti e frequenti ricoveri mi hanno salvato la vita. Non me ne rendevo conto allora, ma riflettendoci, negli anni, l’ho capito. È stato l’istinto a salvarmi come fu l’istinto in precedenza a salvarmi dal suicidio.
Mi hanno raccontato, i contenzionati, tutti, di estreme sofferenze psichiche oltre che fisiche, di abbandoni, di solitudini, di richieste inevase, di ore che parevano giorni, di giorni che sembravano mesi. Io non ho mai subito una contenzione, per fortuna, ma non posso che condividere la sofferenza di chi l’ha subita. Credo però che possa essere necessaria in casi estremi. Definire estremo. Spero solo che non sia la stanchezza del personale che pure è legittima in un reparto così faticoso a definire la parola estremo, che non sia la frettolosità, che non dipenda da una lucidità appannata. Credo fermamente che fare la scelta più facile, che sia contenzione o altro, sia oltremodo dannoso e deleterio per il paziente e per il curante. Anche quando è necessaria la contenzione è un fallimento. Sottolineo che questa riflessione è di uno psichiatra prima che mia. Infatti bisogna sforzarsi di fare la scelta migliore e a volte anche così si sbaglia.
Milone scrive, provocatoriamente credo, L’arte di legare. A me la parola arte evoca altro. Per esempio la pittura o il cinema, la letteratura e la poesia, la scultura e la musica. La parola arte mi fa pensare a un’opera umana che contenga matematica, chimica e fisica traslate su piani non convenzionali. I colori non sono forse chimica? Ma oltrepassata la loro mera esistenza, grazie all’ingegno e alla manualità umane, diventano dipinti emozionanti. Le parole non sono forse musica e composizione? Matematica, metrica, armonia. E i pensieri? Sono il frutto dell’essere umani, dell’esperienza di essere umani.
Legare al letto, al massimo, è un’abilità, se si fa bisogna farlo con maestria altrimenti forse è peggio.
Ho vissuto per molti anni con la morte al mio fianco insinuante, melliflua, suadente. Mi era vicina, mi tentava, mi allettava. Sbandavo notte e giorno, crollavo seduta in un angolo, in un vicolo buio, ai piedi di una statua. Piangevo sulla mia valigia semivuota dove c’erano cimeli inutili e carabattole: una stilografica rotta, fogli spiegazzati, il guinzaglio di un cane, un paio di mutande e una maglia sbrindellata. Con quella andavo direttamente in reparto, non passavo nemmeno dal pronto soccorso, percorrevo la breve salita, suonavo e mi facevano entrare. Mi salvarono. Il suicidio e l’incidente si allontanavano, non ero io allora, o meglio ero un altro me. Anni trascorsi, trascinati, vissuti al guinzaglio della morte. Il capitolo di Milone sul suicidio e sulla Signora (come la chiama lui, la morte) mi ha offerto spunti di riflessione, ci ho ritrovato amici che sono scomparsi e quelli che si sono salvati. E quelli che si sono lanciati e che non volevano morire. Quelli che vogliono cessare di vivere, interrompere qualcosa che non sanno più tenere a bada, Ferma il mondo, voglio scendere. Ma la morte non guarda in faccia nessuno e raccontarla è difficile e semplice al tempo. Ci sono bravi e cattivi scrittori.
Ma proprio questa bella scrittura ci trae in inganno. Perché in questo libro le persone vengono spezzettate nei vari aneddoti, perdono la loro complessità, la vita a tutto tondo ed emergono solo come piccoli fatti più o meno interessanti, trattati stilisticamente più o meno bene.
In questo senso il libro, nel complesso mi sembra un trucco. È uscito come un testo di narrativa, ma è infarcito di psichiatria o meglio di racconti, di flash sulla psichiatria, di riflessioni e di provocazioni sulla psichiatria. A chi è destinato questo libro? Al lettore colto? È un Super Corallo Einaudi. Al lettore informato? Che conoscenza aggiunge allo studente di psichiatria o a un collega? Al paziente psichiatrico, quello che come me è passato attraverso molti inferni e che come me non può amare gli elenchi di malati che Milone stila semplificando le patologie e le loro caratteristiche? Al neofita che di psichiatria non sa nulla e cerca risposte a difficili domande? Non credo che ne esca soddisfatto. È riservato a chi ama la buona scrittura? Forse, ma allora bastava scrivere di Genova e dei suoi tesori celati, del rapporto con il mare e di quella parte della città che puoi visitare molte volte, senza capirla mai sino in fondo. Forse sarebbe stato meglio scrivere un onesto libro sulle proprie angosce, invece no, credo che Milone avrebbe potuto scrivere un buon libro sui suoi stati d’animo senza voler trasmettere posizioni e principi psichiatrici personali, dati come vangeli, a un pubblico impreparato.
Per questa ragione mi sembra un trucco, questo libro, un’operazione commerciale, una risposta alla domanda: cosa posso vendere? E ora, adesso, in questo periodo così tetro per il mondo, dopo un lockdown severo e un lungo e agonico susseguirsi di mesi, in questa angoscia, in questo dibattersi come pesci nella rete, nell’incertezza che ormai da tempo viviamo quotidianamente, ecco che ora esce un libro che farà scalpore. Acquistatemi, sembra dirci.

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Commenti su "Ancora sull’Arte di legare"

  1. Il libro di Milone è un condensato di esperienze che mi riporta agli anni in cui come psichiatra lavoravo a Genova e a Ventimiglia e mi sembra molto pertinente alla realtà.
    Non è per addetti ai lavori ma per chiunque voglia entrare a conoscere le varie umanità di cui lui parla. C’è l’amore per Genova, la difficoltà di entrare in relazione con il paziente, il difficile rapporto che talora bisogna mediare con i colleghi, le contestazioni con i parenti, il dramma inevitabile dei TSO ed il rapporto con i farmaci che spesso ci puo’ mettere in difficoltà.
    Per me che esercita da 40 anni la professione, il libro di Milone mi sembra molto puntuale nelle descrizioni e nelle categorie psichiatriche, anche se fatte in modo sintetico e a volte un po’ originale , puo’ essre definito un racconto della psichiatria di trincea che a volte ancora oggi, sia pure in modo minore, sento nelle comunità psichiatriche di fronte allo scompenso di un paziente o alle difficoltà di far rispettare le regole.
    Trovo nei suoi racconti la passione dello psichiatra associata al senso di frustrazione, inevitabile per chi lavora nll’aiuto psichiatrico, trovo la voglia ed il coraggio di raccontarsi oltre ad un profondo rispetto per il paziente, di cui lui sa trarre sintesi con rispetto ed affetto.
    Insomma lo ritengo un libro valido per tutti, non indirizzato a nessuno in particolare ma a tutti coloro che sono curiosi della vita e dei rimedi possibili, che dopo la 180 sono diventati più accesibili a gran parte della sofferenza umana.

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  2. Due argomenti mi hanno colpito del commento al libro di Milone a cura di Emilia Vento
    1) il riferimento che le vite non si spezzettano, altrimenti se ne perde la. complessità, cioè il senso;
    2) la riflessione di una ex-paziente, che è anche una persona, a proposito di: “per chi è scritto questo libro”.
    Due argomenti apparentemente molto distanti, ma che, in realtà, sono lo stesso.
    Noi possiamo scegliere di occuparci dei sintomi di una persona e non di una persona, intera e complessa, se ci muoviamo all’interno di una scienza ignota ai pazienti e ai familiari, come la Psichiatria. Se vogliamo provare a prendere in considerazione le persone nella loro interezza e complessità, dobbiamo poter utilizzare “tempi e luoghi necessari alla cura”, anche delle patologie psichiatriche gravi. Mi riferisco alle. Comunità Terapeutiche e ai Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare. In questi luoghi spazio-temporali, risulta possibile capire come sono le persone nel loro complesso e anche, nello specifico, come stanno male e in relazione a cosa. E, soprattutto, si può lavorare tutti insieme, seppure ognuno nel proprio ruolo, pazienti, familiari e operatori, nel tentativo in primo luogo di alleviare le sofferenze e, se possibile innescare dei cambiamenti.

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  3. Emilia Vento, persona capace di non farsi sedurre dalle parole, ha colto in pieno la questione Milone. Il libro, anche secondo me, è un trucco. Forse scritto da un mago inconsapevole. Ma sempre di trucco si parla. In questo senso, proprio perché il trucco c’è, ma non è facile vederlo, il libro è pericoloso. Ma di questo non ha responsabilità l’abile autore e psichiatra. E’ l’editore che per lustro e storia ne ha piena responsabilità. Ed invece sarà a compiacersi, per il grande successo.

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  4. Molte cose si potrebbe scrivere di questo libro: riguardo ad arte e cultura, scienza e sofferenza e clinica e del ruolo non soltanto assistenziale, ma sociale e civile di chi scrive anche e soprattutto, forse. Ma sarebbe davvero troppo lungo. Mi chiedo allora cosa si possa ancora dire di originale su Milone e sul suo libro.
    Le posizioni sono ormai chiare. Da una parte una larga fetta di opinione pubblica (intellettuali vari, giornalisti, uomini e donne di cultura, le persone mediamente istruite per così dire, una buona percentuale di curanti del settore) che hanno apprezzato il libro definendolo addirittura “artistico”. E poi sembrerebbe una “minoranza” di addetti ai lavori in particolare che è fortemente critica fino a rifiutarlo totalmente. La cosa positiva è che c’è almeno un dibattito. Ma un dibattito che ci dice cosa sul presente e sul futuro della cura? Sarebbe più interessante dal mio punto di vista poter utilizzare le righe di questo “racconto” per provare a produrre una sintesi che possa trasformarsi nella premessa di una nuova progettazione clinica, politica ed etica insieme.
    Nel testo al di là dei contenuti e dell’aspetto più o meno poetico della faccenda sono racchiusi alcuni nodi critici irrisolti secondo me: il senso della “Psichiatria d’urgenza” e i suoi confini, la sicurezza di operatori e pazienti, la selezione del paziente e degli operatori in un contesto di cura, i diritti del “malato”: come garantire una cura efficace ed efficiente e rispettosa della dignità umana e senza sospendere le più elementari prerogative democratiche di libertà dell’individuo? E inoltre, la questione della più politicamente corretta “contenzione chimica” il cui utilizzo sembra sempre più dilagare e subdolamente proprio perché meno plateale di quella meccanica e non esattamente e non sempre limitata ad un contesto prettamente di “urgenza”. E poi l’architettura degli spazi in cui le persone sofferenti vengono accolte. Certi SPDC e non solo andrebbero chiusi “ieri”. Temi enormi le cui implicazioni travalicano inevitabilmente i ristretti confini della sanità pubblica e privata, e quelli più “astratti” dell’arte e della letteratura, e che finiscono per riversarsi nei territori più pratici, ma non meno scivolosi dell’etica, della morale, dell’economia e della politica.
    Si è parlato di “Realismo di Milone”. È realista perché si è riproposto di “fotografare” (di rappresentarla pur sempre trasfigurandola) una certa realtà della cura dell’epoca in cui viviamo? E senza mascherare questa realtà dietro le allegorie e le metafore?
    Non mi pare che il tentativo dell’autore-clinico avesse la pretesa di rappresentare la realtà della cura nella sua interezza, in modo obiettivo. C’è invece tanto di “soggettivo” in quelle pagine e non potrebbe essere altrimenti vista la complessità della “cura” e del rapporto paziente-curante. È vero egli “racconta-descrive” storie coinvolgenti e suggestive e verosimili che appagano il lettore medio ma senza che ci sia un intento pedagogico dell’autore. Voglio dire che il testo non si fa portatore allusivo di una verità, cioè la parola scritta non vuole farsi carico di significati universali. Il libro non vuole certo essere un manifesto programmatico, – imbottito e sostenuto dalla forza di una magniloquenza seducente -. Non mi pare, almeno. “Facciamo due mestieri diversi” come sostenuto dall’autore stesso in diverse interviste. Per fortuna o “purtroppo” forse. Dunque, non è un testo realista o verista, secondo me.
    Qualcuno dedito “all’arte della sottigliezza” parla di “Naturalismo” di Milone e tuttavia qui manca il rigore scientifico ma non si può pretenderlo se abbiamo deciso che trattasi di “opera d’arte”, eventualmente. Di sicuro dal testo emerge piuttosto il “distacco” nel senso che è assente la polemica rispetto a quello che riporta tra le righe. E non potrebbe essere altrimenti visto che emerge sostanzialmente “l’immagine” quasi che siano vani gli sforzi del curante di contrapporsi alla natura delle cose, allo status quo. È assente una visione propositiva delle situazioni umane presentate. Manca lo “sfondo” cioè il riferimento all’ambiente in cui opera e vive il protagonista clinico e autore che qui non ha una funzione sociale. Non si pone lo scopo di migliorare la società o soltanto il contesto in cui opera. E non possono bastare come “sfondo” i “Caruggi di Genova” così evocativi nella descrizione e celebrativi della bellezza della città. Dunque, manca lo scenario dentro il quale far muovere «azioni e sentimenti dei curanti e dei pazienti». L’unico “sfondo” presente sembra essere quello del “Reparto 77”, quell’orizzonte limitato sul quale proietta unicamente la sua esperienza di curante (parziale per ciò stesso come parziale è evidentemente l’ambiente in cui si muove ed opera): è un orizzonte che fatalmente non pretende di essere orientato al futuro, né rivolto all’edificazione di chissà quale nuova sanità. Insomma, non assume la sua scrittura un “carattere civile”, per così dire. Sta qui soprattutto il “male” della sua scrittura, secondo me.
    E qui potrebbe aprirsi un paradosso: come può un testo che ambisce a collocarsi sul piano della “clinica” dichiararsi contemporaneamente prodotto di un’elaborazione artistica che lo pone anche nel territorio della “finzione-creazione” poetica? L’altro paradosso o antinomia sta nel fatto che il libro è stato meditato lungo il dipanarsi di un esperienza pluridecennale ma è scritto anche con foga, un’irruenza e un entusiasmo insieme che possono sconcertare e disorientare il lettore soprattutto quello esperto per esperienza diretta o professione. Proprio per questo (paradossalmente) secondo me finisce per risultare non dico arido ma troppo asciutto sotto certi aspetti e dunque troppo incoerente sia sotto l’aspetto della letteratura che di quello della clinica. Insomma, questa “sterilità” (ai miei occhi) del paesaggio descritto-raccontato sarebbe ben rappresentata dalla forma concisa, stringata, frammentata, essenziale del testo che descrive bene forse la difficoltà dello scrittore di trascrivere la “realtà” del clinico ancora troppo viva e sofferta dentro di lui malgrado i 40 anni di servizio sul campo (o forse proprio per questo?)
    Invece, egli parla, scrive, osserva e spiega in tutta sincerità (ma sincerità e realismo non sono esattamente la stessa cosa). Adesso la palla dovrebbe passare ai legislatori semmai.
    A questo proposito si pone ancora la tormentata questione: a chi toccherebbe combattere per questa lotta di civiltà, #aboliamolacontenzione? Ai politici di palazzo? Ricorrere a un referendum? (provocazione) Pensiamoci bene! I partiti politici saprebbero anteporre l’interesse “culturale”, civile, all’interesse politico di partito? Saprebbero fare della “contenzione” (e di quell’obbrobrio dell’istituto della pericolosità sociale eventualmente aggiungerei) una questione di civiltà prima ancora che di sicurezza nazionale? Oppure più facilmente essi designerebbero – uomini e donne che forse saranno pure democratici-clinici, ma che, sul piano più genericamente culturale – preferirebbero blandire certa pancia dell’elettorato e rassicurare certi lavoratori che negli spdc si ritrovano a fare le notti con un organico sottodimensionato e nemmeno granché specializzato in materia?
    Allora, propongo una precisa ipotesi di pubblico di riferimento del testo di Milone.
    Il libro ha avuto tanto successo presso larghi strati di popolazione di esperti e no perché il testo è palesemente “catartico”. Catartico per l’autore che ha visto nella scrittura un mezzo per regolare qualche conticino in sospeso con se stesso, con i pazienti e con la categoria cui appartiene; e catartico per una larga parte di opinione pubblica che verosimilmente si sente rassicurata dall’idea che i “matti” possano essere legati all’occorrenza. E quindi, plaudono a questi “valorosi ghostbusters”, cacciatori dei nostri fantasmi interiori e delle nostre paure più recondite. E questo la dice lunga forse sull’idea che il “popolo” ha ancora della sofferenza mentale e del ruolo dei curanti che vengono identificati ancora giocoforza con la categoria addetta alla “pubblica sicurezza”, evidentemente.
    Sinceramente non mi sono mai trovato a mio agio in mezzo a tutte queste polemiche pro e contro Milone e il suo testo. Mi sento un po’ come se mi chiedessero di scegliere tra Kraepelin e Borgna: forse nessuno dei due è propriamente necessario. Ma di sicuro entrambi sono indispensabili. Non fraintendete per carità! Riguardo a Kraepelin, voglio dire che qualche elemento di “psicopatologia descrittiva” e di semeiotica male non fanno di sicuro a chi fa questo lavoro.
    In sostanza, mi rifiuto ancora di ridurre la questione ad una mera contrapposizione tra i radical chic della cura ovviamente di sinistra predicatori di una verità riformatrice e i reazionari oscurantisti e ovviamente post-fascisti apostoli mai sopiti dei manicomi e dintorni. Ecc ecc. Mi viene da citare Edo Bennato quando cantava: “♫Uffà! Uffà! Ma che scocciatura! Questa guerra non mi piace, non la voglio fare!♫”. In realtà, a tratti il libro di Milone potrebbe sembrare effettivamente una sorta di “reportage di guerra” di un inviato al fronte, visto che l’autore sembra tante volte entrare in reparto come se si preparasse ad andare in battaglia con quei “corpo a corpo” ingaggiati con i pazienti, ma senza baionetta per fortuna, ma con la forza delle contenzioni fisiche e chimiche. Qui il clinico che si difende a spada tratta con lacci e sedativi, lascia il posto alla “corazza del poeta”(l’arte come difesa dalla brutalità del quotidiano) quando trasfigura in «prosa» i dolorosi fatti di questa “guerra-clinica” quotidiana, che non dubitiamo abbia lasciato tracce concrete nelle vite di tante persone compresa quella del clinico-autore.
    Voglio dire che qui non c’è da riconoscere le ragioni oscurantiste della sacra inquisizione, né di farsi fucilare in nome della libertà o dei sacri principi fenomenologici e basagliani.
    Cioè pensavo di dover uscire dal confronto puramente “ideologico” (e un po’ lo penso ancora). La parola alla scienza, dunque? Come si fa oggi a proposito di virus e pandemia dove tutti vogliono mettere becco? Ma quale scienza, poi? La psicologia? La sociologia? L’antropologia? La fenomenologia? La farmacologia? La giurisprudenza? O forse tutte queste insieme?
    Alla fine ho maturato l’idea che il libro di Milone rende più attuale e urgente l’evidenza di come sia più che mai fondamentale e doverosa una «lotta culturale», per impedire che una “falsa «cultura/clinica» della cura” diventi ancora una volta dominante. Qui ci sono pazienti che vivono sulla propria pelle tutta l’ambivalenza e le contraddizioni del sistema di cura. E poi ci sono i curanti che queste contraddizioni sono tenuti a sanare, semmai, per superare anche, forse, il dramma della scissione che è in loro (in Noi). Per impedire, ancora, che gli uomini e le donne di scienza, medicina e psicologia assortite si chiudano in «un dramma che può sembrare soltanto loro o di una parte soltanto della società (italiana, nel caso specifico). Allora, il tema della “contenzione” è questione di tutto il “popolo” . È, vale a dire, questione culturale e dunque “ideologica”. Ed è un bene che sia così alla fine se vogliamo superarla davvero, forse. La contenzione e questione di sistema e della sua organizzazione e non la elimini chiudendo semplicemente il “reparto 77” e con puro furore iconoclasta. Perché se ci limitiamo ad essere semplicemente pro e contro la “contenzione”, o se ci annoveriamo tra quelli più moderati e dubbiosi che discettano di “contenzione benigna” rischiamo insomma, che la “cura” rimanga autoreferenziale e continui a perdere il contatto diretto con la società in cui opera. Non sto discutendo della bontà o no della contenzione, né contesto il diritto a difendersi del curante dalla violenza altrui. E neppure voglio sindacare “l’efficacia terapeutica in taluni casi della contenzione”. Quest’ultima si espone con tutta evidenza a dei potenziali abusi un po’ come il Tso. E qui sì che si rischia di confondere pericolosamente ancora una volta clinica, poesia e giurisprudenza.
    Ci sono forse casi urgenti e necessari in cui la sofferenza psicologica o mentale giustifichi la sospensione del godimento dei più elementari diritti umani e democratici? Ma cos’è “urgenza?” E cos’è “necessità?”. Certo se ne può discutere come si potrebbe discutere della legittimità di quella chimera “clinico-giuridica” dell’istituto della “pericolosità sociale” cui i sinceri democratici dovranno mettere mani e testa prima o poi. Ma qui non è questo il punto. Non so se è chiaro.
    Si potrà mai salvaguardare un principio di civiltà senza che questo vada a discapito della sicurezza di operatori e pazienti e della bontà e validità della cura? Una democrazia si connota anche dal modo in cui tratta i suoi prigionieri e i suoi “pazienti”, pure.
    Io insisto sull’idea che fino ad oggi ci siamo incaponiti su un falso problema. Voglio dire che il fascino (e il limite) di Milone non sta tanto nella sua scrittura, eventualmente, ma forse risiede nel fatto che non abbiamo ancora deciso noi lettori quale peso assegnare nel caso specifico all’aspetto “letterario e artistico” del testo, e quale ruolo attribuire alle fatiche, ai vissuti di fallimento, ai dolori, alle frustrazioni, a certe insoddisfazioni irrisolte dell’esistenza dell’uomo e del curante.
    Se non vogliamo negare all’autore e al clinico una capacità di umanità e di poesia insieme (comunque la pensiamo), è anche vero che il ritmo rapido (sbrigativo) della narrazione in quella forma quasi di una “sarabanda di conversazioni” con se stesso e con i pazienti, trasfigurazione in termini letterari quasi dell’azione impetuosa e scattante che impongono la “necessità” e l’«urgenza» della pratica clinica, rimangono però pur sempre poveri di una riflessione morale-psicologica più generale degli avvenimenti descritti-raccontati.
    L’altra domanda potrebbe essere: perché sto qui ancora a scrivere di questo libro? Perché lo sto facendo? Non è sul libro che discuto. È su di me come addetto ai lavori, forse: In realtà, non ne parlo, ne scrivo soltanto. La differenza non è poca. Perché scrivere ha almeno il vantaggio che “gli errori (i miei compresi) restano circoscritti” (spero). La scrittura li contiene in qualche maniera. Forse! Il parlare li moltiplica. Di sicuro! Ma circoscrivere gli errori è il primo passo per correggerli in linea di principio. Ecco! Milone scrive di un “errore”, di un “Divertimento fallito” (perché lui stesso dice di “essersi divertito” in buona sostanza) Un divertimento che non funziona però. Nel tentativo di elaborare la sua tremenda solitudine di uomo e di curante ha creato l’avatar o la “maschera” del “clinico-poeta” in modo da poter stare in contatto con i pazienti proteggendosi da loro ma in un mondo virtuale questa volta: quello della letteratura o presunta tale. Facciamo che l’errore di Milone rimanga circoscritto.

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