Recensione del libro: “Anna” di Niccolò Ammaniti

Mi piacciono i libri di Ammaniti. Li ho letti tutti.
Mi piace il suo modo crudo ed ironico di descrivere la tragedia umana, la realtà dei miseri e la difficoltà di relazione degli anni 2000.
Mi piacciono i libri di Ammaniti. Li ho letti tutti.
Mi piace il suo modo crudo ed ironico di descrivere la tragedia umana, la realtà dei miseri e la difficoltà di relazione degli anni 2000.
La malattia di Daniele si chiama salvezza. Quella che desidera per i suoi genitori, per tutti i genitori, per i suoi fratelli, per tutti i fratelli. E per se stesso, la implora. Daniele non tollera la sofferenza, è qualcosa che per lui non ha senso, non vuole nemmeno sentirne parlare. Lo angoscia. Usa droghe Daniele, per non sentire tutto quel dolore. E si scatena la rabbia.
isa…o meglio la donna di Gilles – ché non sembra avere una propria individualità esistendo in funzione dell’esistere di lui – pare vivere per tutta la storia una dimensione di solitudine e di vuoto; vuoto espresso dai dialoghi assai scarni della coppia, scandito dalla preparazione dei pasti, dall’occuparsi delle gemelle, dai lavori domestici; attraverso l’inesorabile trascorrere e ripetersi delle stagioni all’interno di una natura che, per mezzo dei colori esprime un senso che, forse a lei è negato.
Cibo come veicolo di erotizzazione, orgia dei sensi a cui partecipa ogni sera il protagonista maschile della storia Joy Hilditch, ma anche cibo come strumento di violenza invasiva, di fusione con l’altro, di sofferenza e di morte.
Ho rivisto “La mia Africa” dopo essere stata in Africa più volte.
L’opinione del film è cambiata anche per una questione di età. La mia.
La pratica del silenzio mi è parsa in queste ultime settimane una via di salvezza… tuttavia è una pausa e mi par già ora di riprendere il filo con il tema del “buon uso” aperto con le riflessioni sul libro di Fédida Il buon uso della depressione.